INTEGR’AZIONI.
In teatro tra silenzio e suono
Giuseppe Zuddas
Introduzione
Le mani sono loquacissime, lingue le dita, clamoroso il
silenzio.
(Aurelio Cassiodoro)
Il primo contatto con la comunità sorda romana per me è avvenuto nel
maggio del 2006. Da pochi mesi avevo terminato il percorso universitario
triennale al DAMS e una domenica mattina, in pieno centro, mi ero imbattuto
in un gruppo di persone che promuovevano corsi di Lingua dei Segni Italiana
Ricordo che mi ero avvicinato, avevo curiosato qua e là nello stand, quando
improvvisamente delle mani iniziarono ad agitarsi sotto i miei occhi. Subito mi
ritrassi imbarazzato, fingendo di non vedere che davanti a me qualcuno
cercava un contatto. Tornando sui miei passi, facevo per allontanarmi quando
una ragazza mi chiese se fossi interessato ad imparare la lingua dei segni ma io
non risposi, sorrisi dicendo che stavo dando “la classica occhiata” e andai via.
Mi sarei sorpreso più volte durante il giorno a ripensare a quell’incontro.
Potrei scrivere che è stato per caso che ho iniziato un corso di Lingua dei
Segni Italiana (o L.I.S.) che, dopo tre anni, frequento tutt’ora all’interno
dell’Istituto Statale dei Sordi di Roma in Via Nomentana. Potrei scrivere che,
memore di quella mattina in Piazza del Popolo, ho cercato su Internet la
possibilità di imparare a far danzare le mani come avevo visto farlo dalle
persone che lavoravano quella mattina. Si, potrei, ma sarebbe una grossolana e
romantica bugia. In realtà io ho pensato e scelto consapevolmente di
avvicinarmi alla Comunità Sorda della città in cui vivo, ho infatti riflettuto più
volte sul fatto di mettermi in discussione valutando le “in-possibilità” di
contesti così lontani dal mio, alla fine però ho preso una decisione e ho
telefonato al Gruppo S.I.L.I.S. chiedendo un appuntamento per l’iscrizione ad
un corso.
Quando a Settembre dello stesso anno le mani iniziavano a chiamarmi e a
chiamare le cose con un altro nome, diverso da quello abituale non avevo una
conoscenza pregressa della sordità, né come deficit né tanto meno come
handicap. Provengo da una famiglia in cui questo “problema” non è mai stato
trattato per il semplice motivo che non è mai esistito ma, ad essere sinceri,
non è che io non ne sia stato sfiorato. Alle Scuole Elementari così come alle
Medie ho avuto compagni che erano sordi ma, con loro, non era previsto un
confronto che andasse oltre la quotidianità in aula. Ci si sforzava sì di capire e
di capirsi ma spesso le loro urla diventavano motivo di scherno, il suono
terribilmente acuto delle protesi motivo di fastidio e di conseguenza si finiva
(o almeno io lo facevo e sarebbe ipocrita negarlo), col trascorrere il tempo fra
i compagni udenti perché meno complicato, meno faticoso, più…“normale”.
Crescendo, i rapporti sono andati ancora di più affievolendosi per scelte e
strade diverse fino a che forse, quella domenica di maggio, ho pensato di
darmi una seconda opportunità.
Arrivato a Roma, mi capitava talvolta di incontrare gruppi di sordi che al bar si
facevano le loro “chiacchierate”. Vedendoli, rallentavo il passo e
discretamente ma non troppo, mi incantavo ad osservare le mani dipingere
nell’aria chissà quali storie. Io sono certo che qualsiasi persona udente che
come me non ha avuto contatto alcuno con sordi (e non) segnanti, nel vagone
della metropolitana o in mezzo alla strada, mentre fa la fila per pagare una
bolletta o al supermercato, si volta ad ammirare quelle mani che spostano il
vento con dita veloci e precise. Per questo motivo sostengo che non è stato
un caso che io prendessi parte al S.I.L.I.S., chiedendo che mi venisse insegnata
questa lingua che si sviluppa attraverso canali alternativi. Che mi venisse
raccontato come i sordomuti (come erroneamente venivano chiamati i sordi,
ma non solo in passato) nel tempo l’hanno trasmessa regalandola a chiunque
volesse condividerla. Non potevo restare immune e indifferente al fascino che
voltando l’angolo mi aveva già sedotto e infatti, eccomi qua.
All’inizio, per noi udenti, non è affatto semplice proiettarsi, attraverso la
lingua dei segni, dentro la comunità da cui nasce. Già segnare rivoluziona
drasticamente l’approccio con la realtà che ci circonda, ci viene richiesto di
comunicare per mezzo di una via (quella visivo – gestuale) che è per noi
solitamente “di supporto”. Ci viene insegnato a tenere desta l’attenzione su
particolari che noi generalmente non consideriamo. A curarci di come, quanto
e in che modo le nostre mani possono e devono muoversi, e poi il corpo,
l’espressione, il viso; è difficile a volte, faticoso quasi sempre, ma che cosa non
lo è?
Come un bambino, dentro casa muovevo le mie dita rinominando gli oggetti
che mi trovavo davanti, “finestra” erano le mani laterali e sovrapposte che
toccavano lo stomaco, “fiore” il pollice e l’indice che si avvicinavano al naso,
“giallo”un dito che sfiorava la guancia e “teatro” dove entrambe le mani che,
quasi a tenere due fili immaginari, danzano a turno in verticale.
“Il teatro fatto da sordi?” Questa domanda mi è rimbalzata in testa appena la
mia insegnante del primo anno ci invitò a vedere un suo spettacolo tratto da
un testo di Garcia Lorca. Ero sbigottito che potesse accadere, cominciavo ad
entrare in una fantastica dimensione in cui tutto è davvero possibile ma allo
stesso tempo ero infastidito dalla mia ignoranza. “Sono uno studioso di Storia
del Teatro” mi dicevo, “e perché mi sono trovato impreparato di fronte ad
una notizia del genere?” “Perché nessuno dei miei professori mi ha mai
raccontato che da qualche parte, nella mia stessa città, un gruppo teatrale può
mettere in scena Garcia Lorca attraverso una lingua diversa dalla mia?” In quel
preciso istante ho deciso che la mia seconda Tesi di Laurea si sarebbe
occupata del “Teatro segnato”, che avrei sfruttato il tempo a mia disposizione
raccontando ai miei professori, e di nuovo a me stesso, che esiste un’altra
forma ancora di andare in scena, di muovere le mani e il corpo sul
palcoscenico. Un teatro che ci gira intorno e che troppo poco si conosce, fatto
di un silenzio che non è il “nostro”, di decine di dita che riempiono lo spazio
con un unico desiderio, quello ancestrale per cui il Teatro stesso nasce ed
esiste, quello di raccontare a tutti delle storie.
La Tesi si articola in tre sezioni. Nella prima si analizza la sordità attraverso le
cause che la determinano e gli ausili, le terapie e gli interventi (non solo clinici)
che nel tempo abbiamo avuto e abbiamo a disposizione per intervenire sul
deficit. Tutto questo attraverso il racconto di come in tutto il mondo, da
sempre, persone sorde che si frequentano danno inevitabilmente origine ad
una lingua visivo – gestuale; in particolare questo lavoro si sofferma su quella
italiana che ha e continua ad avere un suo percorso autonomo seppur
ostacolato talvolta dall’invadenza e dalla “tuttologia” del “Mondo Udente”.
Quindi si evidenziano le macro e micro caratteristiche di questa comunit
anche da un punto di vista antropologico per concludere poi descrivendo le
espressioni artistiche e teatrali che la connotano e l’arricchiscono dall’interno.
La seconda parte si riallaccia ad una prospettiva contemporanea del teatro che
dagli anni delle Avanguardie fino ai giorni nostri, ha radicalmente reinterpretato
il linguaggio “di” e “in” scena, destabilizzando la tipologia di
fruizione tradizionale e motivando di conseguenza un diverso profilo dello
spettatore. Credo infatti che l’interesse che mi ha portato dalle aule
universitarie ai laboratori, in cui il teatro si trasmette attraverso i segni, sia da
ricercare soprattutto in quella che ritengo essere una vera e propria rieducazione
degli spettatori. Un incontro con nuove proposte che trova origine
nell’atteggiamento avanguardistico del “Teatro fuori dal Teatro” realizzato ora
in luoghi non più deputati, lontano dalle arcaiche reverenzialità al testo e che
ha proceduto contaminando anche “violentemente” lo spettatore con stimoli
alternativi alla “teophonìa” da foyer come ad esempio, nel nostro caso, il
“silenzio”.
Il terzo capitolo illustra quello che è un po’ il messaggio che il mio lavoro
vuole trasmettere occupandosi di “Teatro dei Sordi”. Si presentano due
compagnie teatrali che ho avuto il privilegio di conoscere professionalmente,
una di Roma e una di Varese, le quali hanno entrambe sviluppato un canale
integrativo attraverso il teatro mettendo in scena lavori portati avanti fin
dall’origine da operatori sordi e udenti insieme. Questo ha comportato due
culture differenti a confronto e scontro, ha delineato un lavoro di creazione su
due piani contigui e paralleli e conseguentemente offerto la possibilità ancora
una volta agli spettatori di mettere in discussione il proprio concetto di disabilità.
Siamo negli anni Trenta, per la precisione nel 1934, dalla tribuna di “Scenario”
con foga pamphletaria il critico Virginio Lilli “ci” raccontava che:
(…)Il Teatro è spettacolo dei ciechi. La scena si sente, non si vede. Chi vuol vedere la scena,
vada al cinematografo che è (o dovrebbe essere) lo spettacolo dei sordi. Al cinematografo la
scena parla, al teatro la parola fa la scena.1
Se ci fosse ora, Lilli probabilmente si rammaricherebbe del prestigio ormai
messo in forte crisi da tempo, del testo e della sua pregnanza poetica
declamata. Se ci fosse, Lilli soprattutto si renderebbe conto che il
“cinematografo” ben poco ha fatto, e a stento fa per i non udenti che lui
riconosceva come primo pubblico. Se ancora, l’illuminato Lilli vivesse ai giorni
nostri, sono certo che resterebbe sbalordito dalla potenza creativa di uno
spettacolo teatrale fatto dai sordi.
Perché sì, i sordi fanno teatro e ne fanno tanto e da tanto tempo. Lo fanno
con il gusto e il piacere che migliaia di uomini provano da sempre attraverso
quest’arte. Lo fanno in Italia, in Francia, in Svezia, negli Stati Uniti, in Cina, in
Giappone e in India loro, ostinatamente, ancora lo fanno. Anche per noi, che
dovremmo sforzarci d’essere semplicemente più curiosi.
Vorrei aggiungere a questa introduzione un ringraziamento speciale alla
Dott.ssa Simona Zinna la cui Tesi di Laurea, di prossima pubblicazione, ha
rappresentato il faro del mio lavoro. Nell’oceano di “non-informazioni”,
specie in lingua italiana, che riguardano il teatro “dei” o “per” i sordi, il suo
scritto è quanto di più completo una persona “curiosa” possa oggi consultare.
(1 In Puppa P., Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 18)
Tesi di Laurea Magistrale di Giuseppe Zuddas
Relatore Prof. Giancarlo Sammartano
Correlatore Prof.ssa Simonetta Maragna
A.A. 2007-2008
Università degli Studi ROMA TRE –
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Studi in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo
Indice
Premessa I
Introduzione IV
Capitolo I La sordità 1
1.1 L’handicap nascosto 2
1.2 Una lingua proibita 10
1.3 Nel Regno del Silenzio 19
1.4 Verso una scena “segnata” 27
Capitolo II Il teatro che mi gira intorno 39
2.1 Dal grido al silenzio 42
2.2 Liberi tutti! 55
2.3 Il teatro e il sociale 70
Capitolo III Integr’azioni 87
3.1 Creatività e Diversità 92
3.2 Estere…fatti! 100
3.3 Abile Stivale 111
3.4 A domanda risponde 114
Conclusioni 141
Grazie… 146
Inchini… 148
Bibliografia 151
Articoli 155
Filmografia essenziale 156
Sitografia 157