HELEN KELLER
(1880 – 1968)

Noi tutti, vedenti e non vedenti, ci differenziamo gli uni dagli altri non per i nostri sensi,

ma nell’uso che ne facciamo,
nell’immaginazione e nel coraggio con cui cerchiamo la conoscenza
al di là dei sensi.

(Helen Keller, The five-sensed world, 1910)

Sommario

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La storia della mia vita, ed. Paoline, Roma, 1981

Alcuni frammenti tratti dal libro autobiografico di Helen Keller, a cura di Enrica Rèpaci

Dal I° Capitolo
… sono nata il 27 giugno 1880 a Tuscumbia, cittadina del nord dell’Alabama, discendente di Caspar Keller, uno svizzero stabilitosi nel Maryland … Uno degli antenati svizzeri fu il primo insegnante dei sordomuti di Zurigo e scrisse un libro sulla loro educazione …
Fino all’epoca in cui la malattia mi privò della vista e dell’udito, io vissi in una casetta formata da una grande stanza quadrata ….
Era completamente ricoperta dalla vite. Dalle rose rampicanti e dal caprifoglio … La chiamavano “edera verde” …le palizzate erano coperte da una bellissima edera inglese … Quel giardino di antico stampo fu il paradiso della mia infanzia …anche prima che venisse la mia maestra ero solita andare in esplorazione lungo le rigide siepi di bosso per cercarvi, guidata dall’odorato, le prime violette ed i gigli appena sbocciati … ma le predilette erano le rose …
L’inizio della mia vita fu semplice e del tutto simile a quello di qualsiasi altra bimba … mi hanno raccontato che ero ancora in fasce quando cominciai a dare segni di un carattere vivo e deciso … cercavo di imitare tutto quello che vedevo fare dagli altri .. a sei mesi zufolavo una canzoncina e un giorno attirai l’attenzione di tutti dicendo molto chiaramente “ te, te, te …”
… dopo la malattia mi rimase impressa una delle parole che avevo imparato in quei primi mesi. Era la parola “acqua” ed io continuai a pronunciarla anche dopo aver perduto completamente la parola … smisi di emettere il suono “ua ua” solo quando imparai a scandire le parole … Mi dicono che camminai per la prima volta il giorno in cui compivo un anno … una breve primavera, un’estate ricca di frutti e di rose, un autunno dorato volarono via deponendo i loro doni ai piedi di una bimba vivace e felice. Poi, nel triste mese di febbraio, sopraggiunse la malattia che mi chiuse gli occhi e le orecchie e mi precipitò nell’incoscienza di una neonata  … una mattina la febbre mi lasciò, misteriosamente come era venuta. Tutti si rallegrarono in casa quella mattina e nessuno, neanche il dottore, si accorse che non ci vedevo e che non ci sentivo più … mi sembra di avere un ricordo confuso di quella malattia. Ricordo specialmente la tenerezza con cui mia madre cercava di calmarmi nelle ore di veglia angosciosa e l’agonia e lo sgomento con cui mi svegliai da un dormiveglia agitato e rivolsi gli occhi aridi e bruciati verso la parete, lontano dalla luce che avevo tanto amato e che diventava di giorno in giorno sempre più oscura. Ora, tranne questi ricordi fluttuanti … tutto appare irreale come un incubo. A poco a poco mi abituai al silenzio ed all’oscurità che mi avvolgevano e dimenticai che c’era qualcosa di diverso fino a quando il mio spirito fu liberato per opera della maestra. Ma, durante i primi diciannove mesi, avevo intravisto i vasti campi verdi, il cielo luminoso, gli alberi ed i fiori che in seguito l’oscurità non riuscì ad annullare completamente. Se abbiamo avuto la vista anche una volta sola, “il giorno è nostro con quello che ci ha mostrato”.

Dal II° Capitolo
Non ricordo quel che avvenne nei primi mesi dopo la malattia. So solamente che sedevo in grembo alla mamma o mi attaccavo alla sua sottana quando si dedicava alle faccende di casa. Le mie mani toccavano tutto ed avvertivano ogni movimento. In questo modo impari a conoscere parecchie cose. Ben presto sentii il bisogno di comunicare con gli altri e cominciai a servirmi di segni. Scotendo la testa intendevo dire No e piegandola Sì. Uno strattone significava “Vieni”, una spinta “Va”. Se volevo il pane imitavo il gesto di affettarlo e di imburrarlo. Se desideravo che la mamma preparasse il gelato per il pranzo, imitavo il gesto di lavorare il ghiaccio e rabbrividivo per indicare il freddo.
La mamma mi intendeva a meraviglia e pure io capivo sempre quel che voleva che le portassi, precipitandomi al piano di sopra e in qualunque altro posto in cui mi aveva detto di andare. Tutto quello che ci fu di bello e di buono nella mia lunga notte, lo devo alla sua intuizione amorosa.
Capivo molto bene tutto quello che accadeva intorno a me. A cinque anni avevo imparato a piegare e riporre gli indumenti puliti che riportavano dalla lavanderia e sapevo distinguere i miei dagli altri. Mi accorgevo quando la mamma e la zia erano vestite per uscire e invariabilmente strepitavo per andare con loro. Sapevo se c’erano invitati e quando gli ospiti prendevano congedo agitavo la mia manina verso di loro forse come un vago ricordo del gesto di saluto. Un giorno mi accorsi che alcune persone erano venute a trovare la mamma dal rumore del portone che si chiudeva e dagli altri suoni che indicavano il loro arrivo …
Non mi ricordo di quanto mi resi conto di essere diversa dagli altri ma certo lo seppi prima dell’arrivo della maestra. Mi ero accorta che i miei cari non si servivano di segni come me quando avevano bisogno di qualche cosa ma parlavano con la bocca. Altre volte, trovandomi tra due persone che conversavano, toccavo le loro labbra e, non potendo capire, mi irritavo, muovevo le labbra gesticolando freneticamente senza risultato. Tutto questo mi rendeva furiosa al punto che tiravo calci e urlavo fino a quando, esausta, dovevo smettere. Credo di essermi resa conto della mia cattiveria perché mi accorsi che facevo male a Ella, la bambinaia, quando le tiravo qualche calcio e dopo quelle esplosioni di collera provavo qualcosa di simile al pentimento …
In quegli anni i miei fedeli compagni furono una bimbetta di colore, Martha Washington, figlia del nostro cuoco, e Belle, un vecchio setter, gran cane da caccia …
Martha capiva i miei segni ed io riuscivo quasi sempre a farle fare tutto quello che volevo. Provavo piacere a dominarla … ero forte, svelta, incurante delle conseguenze … gran parte del tempo lo passavamo in cucina … Un giorno un grosso tacchino mi strappò via dalle mani un pomodoro e se ne scappò via … portai via, a mia volta, dal forno una torta …
La gallina faraona … una delle mie gioie più grandi era di andare a cercare le uova tra l’erba alta. Non potevo dire a Martha che volevo andare a cercare le uova, ma piegavo le mani e le abbassavo verso terra a significare qualcosa in giro per l’erba e Martha capiva subito … quando finalmente trovavo il nido, non le permettevo mai di portare le uova a casa, facendole capire, con gesti enfatici, che poteva cadere rompendole.
Il granaio, la stalla, il recinto in cui si mungevano le mucche erano una fonte inesauribile di divertimento … le contadine mi lasciavano toccare le bestie mentre le mungevano e spesso, per la mia curiosità, mi sono presa qualche frustata dalla coda di una mucca.
I preparativi di Natale mi colmavano di gioia … non potevo capire quel che accadesse intorno a me ma mi rallegravo per i buoni odori che riempivano la casa e per le ghiottonerie che regalavano …
In quei giorni ci facevano macinare spezie, scegliere l’uva e leccare i mestoli …
Belle, il nostro cane, era vecchio e pigro … io cercai di insegnargli il mio linguaggio ma lui era stupido e distratto …
Parecchi incidenti di quei primi anni sono rimasti impressi nella mia memoria, isolati, ma chiari e distinti, perché in quella vita silenziosa, buia e senza scopo, tutto aveva una risonanza più profonda.
… il grembiulino … lo avvicinai al fuoco … feci tanto fracasso che la bambinaia si precipitò nella stanza …
Verso quell’epoca imparai ad adoperare la chiave. Una mattina chiusi la mamma nella dispensa … la poverina dovette rimanerci per circa tre ore nonostante continuasse a tempestare contro la porta … seduta sui gradini del porticato io ridevo sgangheratamente alle vibrazioni dei colpi. Questa grossa birichinata convinse i miei genitori della necessità di educarmi al più presto possibile.
Dopo la venuta della mia maestra, la signorina Sullivan, colsi la prima occasione che mi si presentò  per chiuderla in camera  …
A cinque anni mi trasferii dalla casina ricoperta dalla vite in una casa più grande. … mio padre, mia madre, due cugini piuttosto anziani e più tardi una sorellina, Mildred …
Il primo ricordo chiaro e distinto che ho di mio padre mi riporta a quando mi facevo strada tra montagne di giornali, finché lo trovavo solo con un foglio di carta davanti alla faccia. Imitavo il gesto., inforcando persino gli occhiali con la speranza che mi aiutassero a sciogliere l’arcano, senza alcun risultato. Solo dopo parecchi anni … riuscii a capire il segreto. Il babbo era molto affettuoso e indulgente … era un gran cacciatore ed un tiratore famoso … il suo vanto … il grande orto … le angurie e le fragole … ricordo ancora il tono carezzevole con cui mi guidava di albero in albero, di vite in vite e come si rallegrava per tutto quello che mi piaceva.
Era un facondo narratore di storielle e, dopo che ebbi riacquistato il linguaggio, soleva scandire goffamente nella mia mano gli aneddoti più spiritosi …
… estate del 1896 quando mi raggiunse la notizia della morte del babbo. Fu il mio più grande dolore, il primo incontro con la morte.
E della mamma che dirò? E’ tanto unita a me che parlando di lei mi sembra di commettere una indelicatezza.
Per parecchi anni considerai la mia sorellina come un’intrusa. Sapevo di non essere più la prediletta … e questo pensiero mi riempiva di gelosia …
Avevo una bambola molto amata e molto bistrattata a cui più tardi misi il nome Nancy. Era ahimé la vittima indifesa delle mie crisi di furia o di affetto, tanto che in breve si era tutta consumata. Ho avuto bambole che parlavano, piangevano, aprivano e chiudevano gli occhi ma non ho voluto bene a nessuna come alla povera Nancy. … un giorno trovai la mia sorellina pacificamente addormentata nella culla di Nancy. Una simile presunzione mi rese furiosa al punto che precipitandomi sulla culla, la capovolsi, a rischio di uccidere la bambina che si salvò solo perché la mamma l’afferrò a tempo.
Quando si cammina nella valle della duplice solitudine, si ignora l’affetto che nasce dalle parole tenere e dai gesti amorevoli dei compagni d’infanzia.
In seguito, quando fui restituita al consorzio umano, Mildred ed io crescemmo a cuore a cuore e gustammo la gioia di andarcene, tenendoci per mano, là dove ci guidava il capriccio del momento, benché lei non fosse in grado di intendere il linguaggio delle mie dita ed io il suo cinguettio.

Dal III° Capitolo
Frattanto il mio desiderio di esprimermi cresceva. I pochi segni di cui mi servivo diventavano sempre più inadeguati e il fallimento dei miei tentativi di comunicare con gli altri era sempre seguito da esplosioni di collera. Avevo la sensazione di essere chiusa nella morsa di una mano invisibile e facevo sforzi frenetici per liberarmi. Lottavo, senza riuscire a nulla, ma il mio spirito di resistenza era tenace. Generalmente scoppiavo in lacrime e tutto finiva in un collasso fisico. Se la mamma era vicina mi rifugiavo tra le sue braccia, troppo sconvolta per ricordare persino la causa della tempesta. Dopo un po’ di tempo la necessità della comunicazione diventò così urgente che queste esplosioni si presentavano ogni giorno e talvolta ogni ora.
I miei genitori erano profondamente addolorati e preoccupati. Vivevano troppo lontani da una scuola per minorati ed era assai improbabile che qualcuno potesse venire a Tuscumbia ad insegnare ad una bambina cieca, sorda e muta. A dire il vero, amici e parenti alle volte mettevano in dubbio la possibilità di rieducarmi. L’unico barlume di speranza per mia madre venne dalle American Notes di Dickens. Aveva letto il profilo di Laura Bridgman e ricordava vagamente che pur essendo sorda e cieca era stata rieducata …
Quando avevo circa sei anni mio padre sentì parlare di un eminente oculista …
Il viaggio a Baltimore … fu tanto divertente … in treno feci amicizia con molta gente. Una signora mi regalò una scatola di conchiglie e il babbo le bucò in modo che si potesse infilarle con uno spago … il gioco che mi rese felice per parecchio tempo. …. il controllore bucava i biglietti … mi permise di giocare on la tenaglia perforatrice … la zia mi fece una grossa bambola con un asciugamano … comica, improvvisata senza naso, bocca, occhi e orecchi … cosa davvero curiosa, la mancanza degli occhi mi urtò più di tutti gli altri difetti  messi insieme … alla fine mi balenò nella mente un’idea luminosa … il mantello della zia era guarnito di grosse perle … ne strappai due cercando di far capire alla zia che volevo che le cucisse sulla bambola. La zia portò la mia mano sui suoi occhi con aria interrogativa ed io assentii energicamente.
… a Baltimore … avvertii subito la tenerezza e la simpatia che costituivano l’attrattiva principale del dott. Bell, tanto celebre per le sue meravigliose scoperte … mi prese sulle ginocchia mentre io esaminavo il suo orologio che fece sonare appositamente per me. Capì i miei segni ed io me ne accorsi subito e gli volli subito bene … ma non potevo supporre neppure lontanamente che quell’incontro era la porta attraverso la quale sarei passata dall’oscurità alla luce, dall’isolamento al consorzio umano, all’amicizia, alla conoscenza, all’amore.
… nell’estate del 1886 … ma la signorina Sullivan non giunse prima del marzo dell’anno successivo.
Così uscii dall’Egitto e mi arrestai di fronte al Sinai. Allora una potenza divina mi toccò lo spirito e lo illuminò in modo da lasciarmi scorgere innumerevoli meraviglie. E dalla sacra montagna udii una voce che diceva: “ la conoscenza é amore, luce e visione”.

Dal IV° Capitolo
… marzo 1887, tre mesi prima del mio settimo compleanno … avevo avvertito vagamente dai segni della mamma e da un affrettato andirivieni per la casa che stava per succedere qualcosa di inconsueto perciò uscii dalla porta e mi misi ad aspettare sugli scalini.
… la collera e l’amarezza mi avevano devastata per settimane ed ora a quella lotta violenta seguiva un profondo languore …  siete mai stati sul mare in una nebbia densa che sembra imprigionare, dentro una notte bianca, quasi palpabile, il transatlantico che cerca di raggiungere la costa a tentoni, servendosi degli scandagli e di segnali telegrafici mentre voi attendete col cuore palpitante per il timore di tutto quello che può accadere?
Prima che cominciasse la mia rieducazione io ero come quel transatlantico, ma non avevo la bussola o lo scandaglio né potevo misurare in alcun modo la distanza che mi separava dal porto. “Luce, datemi la luce” – era il grido inarticolato dell’anima mia, e proprio in quell’ora la luce dell’amore brillò su di me. Sentii dei passi che si avvicinavano e tesi la mano credendo fosse la mamma. Qualcuno la strinse ed io fui sollevata e chiusa fra le braccia di colei che mi avrebbe svelato l’universo e, soprattutto, mi avrebbe amata.
La mattina dopo, la maestra mi portò nella sua stanza e mi regalò una bambola. Me la mandava una piccola cieca dell’Istituto Perkins ed era stata vestita da Laura Bridgman ma tutto questo lo seppi molto più tardi. Allora io giocai un po’ con la bambola mentre la signorina Sullivan scandiva sulla mia mano la parola  “b a m b o l a”
Subito mi interessai al gioco delle sue dita cercando di imitarlo e quando finalmente riuscii a formare correttamente la parola mi gonfiai di orgoglio e di gioia infantile. Corsi giù dalla mamma e tenendola per mano formai le lettere della parola bambola. Non sapevo di compitare una parola, anzi non sapevo neppure che esistessero ma muovevo le dita, imitando i gesti come una scimmia… nei giorni seguenti imparai a compitare molte parole … mi ci vollero parecchie settimane prima di arrivare a rendermi conto che ogni cosa aveva un nome …
Un giorno mentre giocavo con la bambola nuova, la signorina mi mise in grembo anche la mia grossa bambola di stoffa e compitò “b a m b o l a“  e cercò di farmi capire che quella parola si riferiva a tutte e due.
Pochi giorni dopo avemmo uno scontro per le parole  tazza   e acqua. La signorina aveva cercato di imprimermi bene in mente che “t a z z a” é tazza e “a c q u a” é acqua ma io continuavo a confondere le due cose. Allora la signorina accantonò la questione per riprenderla al momento opportuno… ma i suoi reiterati tentativi mi irritarono al punto che scaraventai per terra la bambola nuova … quando sentii ai miei piedi i pezzi della bambola fracassata, mi sentii sollevata e serena senza il minimo pentimento o rimorso per la mia violenza. Non volevo bene alla bambola: in quel mondo oscuro e silenzioso non c’era posto per i sentimenti e la tenerezza …   la signorina mi portò il cappello ed io capii che saremmo andate a godere il tepore del sole … ci avviammo al sentiero che conduceva al pozzo … qualcuno attingeva l’acqua e la maestra mise la mia mano sotto il getto, poi, mentre la corrente fresca mi scorreva sulla mano, scandì sull’altra la parola  acqua, dapprima lentamente e poi sempre più presto … io stavo lì immobile tutta intenta al movimento delle sue dita. All’improvviso ebbi la oscura percezione di qualcosa di dimenticato – un fremito per la ricomparsa di un pensiero sopito – e mi si svelò il mistero del linguaggio. Capii che “a c q u a”  significava quella frescura meravigliosa che scorreva sulla mia mano. Le parole vivificatrici risvegliavano l’anima mia, la illuminavano, la allietavano, le donavano speranza. Le barriere c’erano ancora, è vero, ma col tempo sarebbero state abbattute. Mi allontanai dal pozzo tutta presa dall’ansia di imparare. Tutte le cose avevano un nome ed ogni nome faceva nascere un nuovo pensiero. Tornata a casa mi sembrava che ogni oggetto che toccavo vibrasse di nuova vita. Era perché io vedevo tutto con la strana vista che avevo appena ricevuta. Sulla porta d’ingresso mi ricordai della bambola che avevo rotta. Corsi al caminetto e raccolsi i pezzi, cercando inutilmente di metterli insieme. Allora i miei occhi si empirono di lacrime perché capii quel che avevo fatto e per la prima volta provai il pentimento e il dolore.
Quel giorno imparai tante parole nuove … so che tra l’altro imparai: madre, padre, sorella, maestra, parole che fecero fiorire il mondo per me, come la verga di Aronne …

Dal V° Capitolo
Estate 1887 … non facevo altro che esplorare ogni cosa con le mani e imparare il nome degli oggetti che toccavo: e più cose maneggiavo imparandone il nome e l’uso, più cresceva in me, lieto e fiducioso, il senso di fraternità con il resto del mondo …
… la signorina Sullivan attraverso i campi che gli uomini stavano preparando per la semina, mi condusse agli argini del Tennessee. Là mentre eravamo sedute sull’erba intiepidita dal sole, mi impartì la prima lezione sulla bontà della natura.
Appresi allora che il sole e la pioggia fanno crescere dal suolo le piante, che rallegrano l’uomo con la loro bellezza e servono a nutrirlo. Imparai pure come vivono gli uccelli, che si fabbricano il nido sulle piante e come si procurano il cibo, dove si rifugiano gli scoiattoli, il cervo, il leone e tutti gli altri animali … ma verso quell’epoca una nuova esperienza mi insegnò che la natura non é sempre clemente … mi accorsi che il cielo era nero perché ogni calore era scomparso e dalla terra saliva uno strano odore che riconobbi per quello che precede il temporale. Una paura senza nome mi serrò il cuore, mi sentii completamente sola, tagliata fuori …   avevo imparato una nuova lezione e cioè che la natura “muove guerra aperta ai suoi figli e sotto le tenere carezze nasconde l’artiglio”… passò parecchio tempo prima che potessi arrampicarmi di nuovo su un albero. il solo pensiero mi riempiva di terrore. Fu l’incontro di una mimosa in fiore a vincere tutte le paure. … una bella mattina di primavera … avvertii nell’aria una fragranza sottile meravigliosa … che é, mi chiesi e un minuto dopo riconobbi l’odore della mimosa … sembrava un albero del paradiso trapiantato sulla terra … mi aprii il varco fino al grosso tronco … cominciai a salire … rimasi lassù sognando di essere una fata seduta su una nuvola rosa. Da allora tornai parecchie volte sul mio albero del paradiso a sognare fiabe fantasiose e luminose visioni.

Dal VI° Capitolo
Ormai possedevo la chiave del linguaggio e non vedevo l’ora di adoperarla. I bambini normali imparano a parlare senza uno sforzo particolare perché afferrano al volo le parole che escono dalle labbra altrui, ma il piccolo sordo le percepisce solo attraverso un processo lento e spesso penoso.
Quale che sia questo processo, il risultato è sempre meraviglioso.
Man mano che si procede nella conoscenza dei nomi delle cose, si supera, un passo dietro l’altro, la distanza sconfinata che separa il nostro balbettìo da un alato verso di Shakespeare.
Da principio avevo pochi problemi, le mie idee erano vaghe e il vocabolario inadeguato. Ma quando le mie cognizioni crebbero ed incominciai a conoscere molte parole, il mio campo di indagine si allargò. Tornavo più volte sullo stesso argomento cercando avidamente altre informazioni … mi ricordo della mattina nella quale imparai il significato della parola “amore” …  avevo trovato un po’ di violette, le prime, nel giardino e le avevo portate alla maestra la quale cercò di darmi un bacio. Ma a quell’epoca io accettavo baci solo dalla mamma. Allora la signorina Sullivan mi circondò amorosamente le spalle con un braccio e mi compitò nella mano: Io amo Helen.  Cosa vuol dire “amo”?  Ella mi strinse a sé più vicina e disse: è qui. E mi toccò il cuore di cui avvertii i battiti per la prima volta. Le sue parole mi incuriosirono assai perché allora non capivo se non quello che potevo toccare con le mani …
Pochi giorni dopo stavo infilando perle di differente grandezza in gruppi simmetrici, due grandi, tre piccole e così via … facevo parecchi sbagli che la signorina  correggeva ogni volta con gentilezza e pazienza. Alla fine mi accorsi di un errore molto evidente nella righe e per un istante mi concentrai sul mio lavoro cercando di pensare come disporre le perle. La signorina Sullivan  mi toccò la fronte e compitò con precisione: Pensa !
In un attimo capii che quella parola era il nome del processo che si stava svolgendo nella mia testa. Fu quella la prima percezione cosciente di un’idea astratta …
tu non puoi toccare l’amore ma senti la dolcezza che diffonde in tutte le cose … per la prima volta avvertivo la presenza di legami invisibili tra il mio spirito e quello degli altri.
Fin da principio la signorina Sullivan mi parlò come se fossi una bambina normale: la sola differenza consisteva nel fatto che mi compitava i suoi insegnamenti nella mano invece di pronunciarli con le labbra. Se non conoscevo le parole necessarie per esprimere il mio pensiero, me le insegnava, suggerendomi anche gli argomenti quando non riuscivo ad arrivare alla fine del discorso.
Questo processo durò per anni: perché una bambina sorda non impara in un mese e neppure in due tre anni le innumerevoli espressioni che si adoperano nei più semplici rapporti quotidiani.
I bambini normali le imparano sentendole ripetere e imitandole. Le conversazioni che sentono in casa stimolano la loro mente, suggeriscono argomenti e provocano l’espressione spontanea dei loro pensieri. Ma il bambino sordo é tagliato fuori da questo scambio di idee. La maestra suppliva a questa deficienza e forniva lo stimolo che mi mancava ripetendomi parola per parola, per quanto era possibile, tutto quello che sentiva e mostrandomi in qual modo potevo prendere parte alla conversazione. Mi ci volle del tempo prima di prendere l’iniziativa e ce ne volle di più prima di trovare la frase appropriata da dire al momento giusto. Per i sordi e per i ciechi è molto difficile cogliere le amenità della conversazione. Tanto più difficile per chi è sordo e cieco allo stesso tempo. Costui non può percepire le inflessioni della voce né seguire la gamma delle varie tonalità e non può neanche vedere l’espressione del volto dell’interlocutore che tanto spesso é l’anima di quel che dice.

Dal  VII° Capitolo
La tappa successiva fu imparare a leggere. Appena fui in grado di compitare qualche parola, la maestra mi diede dei cartoncini su cui erano stampate in rilievo delle parole … avevo un telaietto su cui potevo disporre le parole formando delle brevi frasi ma prima … mi divertivo a disporle sugli oggetti … non c’era gioco che mi divertisse quanto questo  che mi teneva occupata per ore intere …
Dai pezzetti di carta passai ai libri. Ebbi il mio libro di lettura per principianti sul quale andai a caccia delle parole che non conoscevo.
Così incominciai a leggere.
…  la signorina Sullivan aveva l’arte di spiegare le cose più astruse presentandole sotto forma di una bella storia o poesia … aveva una straordinaria attitudine alla descrizione … sorvolava sui particolari e non mi annoiava mai con domande per vedere se ricordavo le lezioni passate. Mi introduceva nell’arido tecnicismo della scienza a poco a poco vivificando talmente tanto ogni argomento che non ho potuto più dimenticare quello che mi insegnava …
… La sua genialità, la sua simpatia e il suo amore allietarono i primi anni della mia vita … capiva che la mente di un bimbo é come un ruscello che scorre e spumeggia sopra il letto petroso dell’educazione, riflettendo qua un fiore, là un cespuglio, laggiù lo sfioccare di una nuvola e cercava di incanalare la mia mente sulla retta via ben sapendo che il ruscello deve essere alimentato dalle sorgenti nascoste fra i monti, fin quando si dilaterà in un ampio fiume, capace di rispecchiare nel suo placido corso le ondulazioni delle colline, le sagome luminose degli alberi che si profilano nell’azzurro del cielo, insieme con la corolla delicata di un fiorellino. … il bambino non lavora con gioia se non ha la sensazione di essere libero di occuparsi o di riposarsi quando crede: deve provare l’ebbrezza della vittoria e lo scoraggiamento della disillusione prima di intraprendere spontaneamente un compito sgradevole,  decidersi a destreggiarsi bravamente attraverso la banalità dei libri di testo …

su Google Libri la versione in inglese The story of my life

Ancora su Google Libri sono on line i seguenti libri di Helen Keller:

The world I live in

Optimism

My Religion

To love this life

Nel suo libro “In light in my darkness” pubblicato nel 1960, Helen Keller sostiene con forza la visione spirituale di Emanuel Swedenborg, scienziato, filosofo, mistico, medium e chiaroveggente svedese del ‘700, rivalutato dalla psicologia del ‘900, in particolare da C. G. Jung.